Storie da tenere a mente per non aver paura delle amnesie e dei brutti ricordi

Quand’ero piccola andavo in villeggiatura in una cittadina con il lungomare sullo sfondo. Ricordo la piazza principale che a me sembrava immensa, a percorrerla tutta mi sembrava ci volesse un’eternità, i lastroni di cemento che la componevano erano più lunghi della mia altezza, lucidi lucidi. Torno spesso in quella città e mi colpisce sempre la piazza, forse più piccola di una piazza normale ma soprattutto mi colpisce la velocità con cui oggi l’attraverso, con pochi passi “da adulto”. Da adolescente ricordo che, causa immobilità in ospedale, per noia compilai una lista dettagliatissima di tutti i miei amici (rigorosamente le sole iniziali avevo il terrore che la trovassero) e ricordo di averli divisi tra “quelli che mi volevano bene” e quelli a cui pensavo di star proprio sulle scatole. A distanza di tempo ricordavo perfettamente la lista, la penna che avevo usato e i colori che contrassegnavano il segno + e il meno. Ero convinta che la lista di quelli che mi detestavano fosse di gran lunga superiore a quelli che mi volevano bene ma non era affatto così: di recente ho ritrovato in una scatola quella vecchia lista sbiadita e, con mio sommo stupore, il segno + era molto più “corposo”.

A parte la prospettiva del bambino che, appunto, tende ad ingigantire le dimensioni delle cose reali io penso che contiamo troppo sulla nostra memoria, citando Borges, potrei dire: “tutto ciò che abbiamo sono ricordi di ricordi”. La psicologa americana Elizabeth Loftus è un’antesignana di questi studi e, attraverso delle esperienze sul linguaggio ha subito percepito la malleabilità delle testimonianze. Una di queste esperienze consisteva nel presentare un film che mostrava un incidente automobilistico e domandare a dei volontari di valutare la velocità dei veicoli quando “si sono scagliati l’uno contro l’altro”. Le stime erano decisamente meno elevate quando lei utilizzava il termine neutro “urtati”. Ma la cosa più sorprendente è che con la prima formulazione della domanda i testimoni dicevano di aver visto dei vetri rotti sulla carreggiata anche quando non era vero. Le tecniche di manipolazione dei ricordi sono innumerevoli : inserire dei personaggi in un album di fotografie, storie familiari di fantasia in mezzo a testimonianze veritiere. In un altro suo studio ancora Elizabeth Loftus, ha dato evidenza di quanto facilmente la memoria giochi brutti scherzi anche senza situazioni di stress: quasi il 30% dei soggetti intervistati era sicuro di aver visto a Disneyland Bugs Bunny, anche se il coniglio dei cartoni animati appartiene alla società concorrente, Warner Bros.

“Quando cambiate un ricordo, questo fatto cambia voi stessi” riassume Elisabeth Loftus e aggiunge che trentacinque anni di ricerche sulle distorsioni della memoria l’hanno convinta che “i ricordi non sono la somma di ciò che una persona ha fatto, ma ancor di più la somma di ciò che ha pensato, ciò che le hanno detto e ciò che ha creduto”. Ma se queste forme di permeabilità della memoria rappresentano situazioni di difficoltà posso dire che la “rinarrazione” della nostra storia ci permette di stare bene, di ricostruire un Sé armonico tanto che Jerome Bruner, famoso psicologo americano, già più di vent’anni fa, proponeva il “pensiero narrativo” contrapposto al “pensiero scientifico”, una sorta di “Sé narratore”. Perché il ricordo è creazione e la memoria è la “ricostruzione di una ricostruzione”, che cambia di continuo. La fantasia abita il territorio della nostra memoria che non è come un file salvato e protetto sul nostro pc ma è permeabile alle emozioni di ogni giorno: i nostri ricordi sono rivisitati e aggiornati dalla Vita che, per dirla con Antonio Mercurio, ”è e diviene”. Noi dell’Antropologia Personalistica Esistenziale riteniamo che, tutte le volte che ostinatamente ci arrocchiamo nelle nostre esperienze infantili con il loro carico di bisogni disattesi e con un fisiologico odio per tutti i torti subiti, deragliamo inevitabilmente da quello che è il nostro progetto interiore e lo scopo della nostra esistenza.

Sprofondiamo in questo odio che, contrariamente al pensare comune, non è un’emozione ma, come l’amore, l’orgoglio e la libertà, appartiene alla nostra sfera trascendentale. L’odio è una libera scelta. Ed essendo l’uomo libero, se vuole può decidere di amare, riparare e soprattutto perdonare però, prima di tutto, deve riconoscersi pieno di odio e, invece di vendicarsi, distruggere, deve decidere di riparare a questa “colpa” in maniera creativa. E per fortuna che siamo in grado di riparare! Pensate a “I duellanti”, il film di Ridley Scott, tratto da un racconto di Joseph Conrad, dove l’incapacità di dimenticare un futile diverbio imprigiona l’intera vita dei due protagonisti. O, almeno, così mi ricordo…

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