La solitudine dell’Altro è anche la mia

Ci sono persone che lasciano il segno anche solo a guardarle. E non si tratta di ferormoni o di sex appeal! Sto parlando di quelle persone che catturano la tua attenzione e ti fanno girare a guardarle, come d’incanto, con la curiosità di una bimba che vede un pagliaccio mangiare uno zucchero filato gigantesco. Queste persone hanno un non so che di misterioso e suscitano la nostra curiosità fino al punto che fantastichiamo su di loro, inventando storie di mistero e di inquietudine. Perché questa forma di fascinazione scatta con alcuni e con altri no? E’ quasi un mistero e non dipende nemmeno dall’aspetto fisico: abbiamo imparato dal cinema americano a diffidare delle persone troppo anonime e banali; con un po’ d’impegno, potremmo immaginare che l’insignificante vicino che tutti i giorni incontriamo nell’atrio del palazzo col sacchetto della spazzatura potrebbe essere un pericoloso serial-killer ma, nel senso letterale, non riusciamo a considerarlo, a memorizzare la sua faccia. Invece la nostra fantasia si sofferma sul misterioso ragazzo sempre solo che rientra furtivo col cartone della pizza e giù a chiederci: chi sarà, come vivrà e se è sposato o no.

La nostra fantasia è proprio fantasiosa (altrimenti che fantasia sarebbe?) e pesca negli archetipi della nostra memoria collettiva (idee innate e predeterminate dell’inconscio umano: tanto per citare Jung), l’alone di mistero che circonda il tenebroso ragazzo fa scattare il sopito investigatore che cova in tutti noi e ci fa tessere strampalate sceneggiature degne di Stephen King. Chiamiamolo sesto senso, memoria collettiva, aurea … ma raramente sbagliamo. Non voglio dire che in tutte le persone taciturne o riservate alberghi lo strangolatore di Boston e non voglio allertarvi facendovi girare sospettosi come la Pantera Rosa! Vorrei soltanto richiamare la vostra attenzione sulla necessità di vedere l’altro. Vedere l’altro vuol dire non scrutarlo e impicciarci di com’è vestito o se le sue scarpe sono lucidate a puntino, per vedere intendo sentire, mettersi sulla sua stessa lunghezza d’onda e chiederci perché il suo fare così riservato desta in noi tanto sospetto. Basta questo a far riemergere i nostri vissuti ancestrali, le nostre paure profonde e focalizzare che il nostro stare all’erta nei confronti dell’altro scaturisce solo dalla paura della solitudine.

L’altro ci fa paura perché ci fa paura la sua solitudine. La sua solitudine ci fa paura almeno quanto la nostra che viviamo con disagio, come se fossimo soli perché nessuno vuole davvero incontrarci, perché stiamo espiando qualche manchevolezza o difetto che noi non riusciamo a scovare ma che tutti gli altri percepiscono immediatamente. Noi nasciamo in comunità, in tribù, siamo attorniati di gente dalla mattina alla sera, ufficio, amici, cinema, happy hour e chi più ne ha più ne metta. Affrontiamo mille difficoltà proprio per non restare mai da soli e cercare di soffocare i nostri ancor più celati vuoti interiori per questo il vicino o il collega che vediamo sempre da solo non stimola alcuna empatia o solidarietà ma, al contrario, mette in moto sensazioni di diffidenza e di paura. E se quell’uomo solitario e taciturno avesse qualcosa da nascondere, se stesse da solo perché non può aprirsi, non può parlare con nessuno? Mi ha davvero colpito la storia letta qualche giorno fa sulla rivista “Internazionale” dei giovani pachistani o afgani che vivono e lavorano a Londra per buona parte dell’anno, come lavapiatti o informatici, poi durante la bella stagione tornano in patria e, per qualche settimana, si arruolano nelle file dei talebani e combattono contro le forze NATO, in modo più o meno cruento.

Poi, con l’arrivo dell’autunno e del freddo (da quelle parti è freddo vero) riprendono l’aereo e tornano alle loro pacifiche occupazioni londinesi. Ho trovato questa storia sconvolgente perché mette in moto tanti ragionamenti. Il primo, l’ho già detto, è sulla nostra incapacità di “vedere l’invisibile”, perché non sappiamo guardare davvero chi c’è vicino. Vediamo soltanto quello che vogliamo vedere, purtroppo. Una riflessione ce la suggeriscono anche questi ragazzi, prigionieri di un rancore senza fondo contro un modo di vita che non riescono né a capire né ad accettare. O meglio, che sopportano per molti mesi e combattono per qualche settimana, prigionieri di una dicotomia, di un’insanabile doppiezza che li rende stranieri in patria e nello stesso tempo li fa vivere da esuli in mezzo a noi. Ne so poco ma credo che portare a lungo questa doppia identità sia uno sforzo insopportabile, una menzogna totale verso tutti che, alla fine, ti opprime e t’impedisce di vivere.

Antonio Mercurio ci ha dato una perfetta definizione della menzogna: “La menzogna esistenziale è quella con la quale l’uomo mente a se stesso e non sa di mentire”. E’ quella con la quale l’uomo nega la verità e nega il principio di realtà e si costruisce una maschera, o un bozzolo, per difendersi dal dolore che dà l’una e che dà l’altro e a questa maschera dà il nome di verità assoluta“: dobbiamo soltanto ricordare che chi vive nella menzogna esistenziale, nel suo profondo, né è dolorosamente consapevole. Così come noi siamo consapevoli che i nostri i schemi mentali non sono altro che gli archetipi con i quali alimentiamo il nostro falso Sé – un sé privo di energia soggettiva, fatto di accondiscendenze, non creativo senza spinta – una sorta di struttura fatta di cartapesta come la nostra maschera, quella che indossiamo come difesa, quella che protegge le nostre radicate convinzioni, affermazioni che occultano l’odio e che bloccano la nostra vita in tutti i sensi. Perciò quando vedremo arrivare il nostro vicino normale, quieto, insospettabile ed irrimediabilmente solitario focalizziamo la nostra di solitudine, il nostro vuoto interiore. Sfoderiamo uno dei nostri sorrisi migliori certi che si poserà sul cuore del nostro “talebano della porta accanto”.

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