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Ashtanga yoga

L’esistenza di ogni essere umano è scandita da un ritmo vibrante e palpitante, come un sottofondo melodico che orchestra ed accompagna tutte le sue azioni, costantemente tese ad armonizzarsi su quegli accordi che echeggiano attraverso l’eterna sinfonia della Natura per celebrarne il perfetto equilibrio. “Momenti” fervidi di caducità si susseguono così nella vita dell’Uomo, fluttuanti e vacillanti come i piatti di una bilancia cercando quiete e stabilità. Ma l’equilibrio non si ferma mai, è uno “stadio dinamico” mai raggiunto una volta per tutte in cui elementi uguali ed opposti si dominano e conciliano a vicenda, alternandosi e sovrapponendosi attraverso giochi di inerzia e di attività, di alleanza e di contrasto, di tensione e di distensione. Si tratta di forze “ambivalenti” che riguardano fenomeni sia fisici che psichici, percettibili e sottili, tutti ugualmente riconducibili a mutazioni della Natura, cangiante arazzo su cui si intesse la trama esistenziale dell’Uomo.

La forma dualistica e speculare delle manifestazioni della realtà affascina e tormenta da sempre filosofi e scienziati, da oriente a occidente, ma pur considerando il campo fenomenico e quello trascendentale da prospettive diverse, spesso “polarizzanti”, le varie culture sembrano oggi iniziare a dialogare attraverso un linguaggio comune. Secondo il Samkhya, una delle sei darshana – antiche scuole di pensiero induiste – i due principi “simmetrici”, eterni ed incausati, da cui deriverebbe l’intera realtà sono la Natura e lo Spirito: Prakrti e Purusha. La natura è l’anima universale, energia primordiale, mutevole e indifferenziata, lo spirito è l’anima individuale, puro essere e coscienza. I due principi sembrano scambiarsi i ruoli a causa della nescienza e dalla loro fittizia interazione si origina uno squilibrio di forze in seno alla prakrti: se nella fase immanifesta le qualità che determinano le differenti modalità energetiche della natura (i tre guna: quiete; attività o instabilità; passività o inerzia) presentano la stessa potenza, quando la nescienza lega lo spirito alla natura, i guna variano la loro tensione e lo stato virtuale di stabilità si scompone nelle diverse vibrazioni responsabili dei fenomeni psicofisici.

Il superamento di tale scompenso può avvenire solo per mezzo della conoscenza, esperienza che permette il giusto “accomodamento” tra mutazione e stabilità, fallacia e permanenza, oscillazione e staticità. La consapevolezza è il filo che puntella con lembi di stabilità gli ineluttabili cambiamenti che trascinano l’uomo lungo la sua esistenza, imbastendoli in un drappo policromo e resistente. Trasformazione e conservazione costituiscono dunque le due facce della stessa medaglia anche secondo la tradizione orientale: come lamine elastiche di una molla che scattano ad ogni ulteriore guizzo di consapevolezza, cingono lo scorrere del tempo in una spirale di metamorfosi perenne.

Il legame tra i due principi del Samkhya è nella psiche, luogo di confusione e sbandamento, ove si agitano inconsce e contrastanti pulsioni (moti opposti di slancio e freno, entusiasmo e paura, attrazione e repulsione), condizionate da esperienze precedenti e pronte a condizionare a loro volta i comportamenti in atto. Le analisi dei processi psichici fatte da questa darshana sono ampiamente condivise dalla moderna psicologia del profondo occidentale. La pacificazione delle opposte istanze del Sé (sattva), la percezione dell’unità nel tutto, il superamento della dualità mente-corpo e l’integrazione delle polarità “anima”/”mente-corpo”, rappresentano tappe fondamentali non solo nei lunghi itinerari psicoterapeutici, ma anche nel cammino dello yoga, un percorso ricco di diramazioni e variabilmente frastagliato. Un sistema piuttosto articolato, strutturato su più livelli è quello raccomandato da Patanjali, definito ashtanga yoga: si tratta di un apparato teorico-pratico costituito da otto branche di applicazione che nel continuum della pratica finiscono per confluire in un unico metodo. Ai primi due livelli si colloca la pratica yogica volta alla “modulazione” del comportamento umano: astensioni – yama – e osservanze – niyama- rappresentano i perni attorno ai quali dovrebbero ruotare le azioni della persona. Le limitazioni in particolare interessano il controllo delle azioni compiute verso gli altri (si tratta di esercitarsi a praticare la non violenza e la sincerità, nonché ad evitare di rubare ed accumulare), mentre le ottemperanze riguardano le azioni intraprese verso se stesso (osservando particolari direttive, quali la purificazione, il duro lavoro, lo studio di Sé e la devozione).

Ad un terzo gradino si procede al rafforzamento della capacità di articolare i muscoli regolando gli impulsi elettrici che si muovono lungo i nervi, al fine di creare attraverso il corpo un legame stabile e gioioso con la Terra e con tutti gli esseri con cui si entra in contatto ogni giorno –asana-. La radice di ogni asana è questa stabile connessione con la Terra. Quando si è fermamente collegati ad essa, ci si sente a proprio agio con il corpo e la mente. Al quarto stadio, una volta stabilito un contatto con tutte le forme tangibili e percepibili con i sensi, si può iniziare ad operare con il prana o forza vitale: quella elettricità che scorre nell’universo. Ogni essere vivente è conduttore di prana, ma l’uomo può apprendere a convogliare questa energia in modo appropriato affinché non si disperda in canali troppo lassi o non si blocchi lungo condotti ostruiti. Il controllo del respiro –pranayama- permette di percepire il prana e di dirigerlo verso l’alto, in modo da potersi elevare oltre il mente/corpo attraverso l’anima. Superato questo livello di pratica, Patanjali prevede lo sviluppo di una sensibilità sottile con la quale percepire la realtà al di là dei cinque sensi – pratyahara -.

Il sistema nervoso è in effetti più adatto a “filtrare” la realtà che non ad offrirne un quadro completo. Rivolgendo i sensi verso l’interno sarà possibile percepire una fetta più ampia di Verità. Il ritiro dei sensi permette poi di avanzare ad un successivo livello di pratica yoga che consiste nella concentrazione –dharana-: in questa sesta fase il flusso contemplativo non è ancora continuo a causa dei pensieri che tendono a sovraccaricare la mente, ma con la pratica, essi iniziano a calmarsi e il silenzio dal quale hanno origine diventa ininterrotto permettendo un ulteriore passaggio –dhyana-. Essa consiste nella pratica di osservare la mente che pensa, in modo da non identificarsi più con essa: meditare non significa pregare, ma piuttosto ascoltare dentro, senza chiedere nulla. La mente viene in tale maniera portata in uno stato di chiara percezione, che le permette di riflettere il Sé come uno specchio terso. L’acme dell’Ashtanga yoga risiede nello stadio del samadhi o autoconsapevolezza. Gli otto ambiti dell’Ashtanga yoga vengono appresi gradualmente e singolarmente ma poi si fondono in un’unica pratica dove il pratyhara rappresenta un ponte che unisce le pratiche esterne (yama, nyama, pranayama, asana) a quelle interne (dharana, dhyana, samadhi) inanellandole in una catena attraverso la quale si riuscirà a dissipare il senso di separazione dagli altri, ad espandere la propria visione ad un livello multidimensionale e a realizzare il Sé.

La catena rimanda ad una successione di elementi correlati tra loro, saldamente avviluppati attraverso un meccanismo di collegamento e nell’ashtanga yoga il gancio tra i vari istanti è la coscienza. Ma l’immagine più efficace per descrivere questa pratica è l’albero, costituito da otto “rami”, i quali, una volta innestati e nutriti, inizieranno ad inerpicarsi fino alla cima fondendosi sinuosamente tra di loro. Attraverso l’esecuzione “fisica” delle asana si accede ad una dimensione “mentale”: la successione euritmica delle posizioni crea infatti un mantram fisiologico che permette alla mente prima di concentrarsi su un singolo punto e poi di lasciarsi assorbire in un flusso meditativo ininterrotto senza disperdersi tra pensieri e sensi. Ci sono più “tralci” che legano in modo trasversale sia le due dimensioni (fisica e mentale) che le diverse posture: il più robusto è il respiro, un motivo monodico e penetrante, prima trattenuto in una morsa stretta e flessibile (Bandha) sottoforma di energia psicocinetica -a livello della glottide, dell’addome e della zona perianale-, poi rilasciato in un flusso costante; il secondo è la necessaria forza di volontà, una fibra tenace e impassibile che va coltivata e fortificata giorno per giorno; il terzo è lo sguardo (Drishty), un diaframma tra il mondo interno e quello esterno, saldo e duttile allo stesso tempo che, restringendo la visione su un oggetto, permette di ampliarla oltre il suo aspetto materiale ad un livello multidimensionale.

Il meccanismo di unione o collegamento delle posture è il vinyasa, il mastice che conferisce ad una specifica sequenza di asana un preciso scopo: alcune serie di asana hanno effetti potenzianti o terapeutici, altre sviluppano equilibrio ed allineamento, spesso sono simili ad una danza o di tipo marziale, a volte narrano storie, ma tutte si innalzano verso una diramazione che porta alla cima dell’albero, il samadhi.

Strumenti di conoscenza di sé o tecniche curative dunque?
Lo Yoga di fatto agisce in modo sinergico sia da un punto di vista somatico -a livello del sistema cardiovascolare, endocrino, nervoso, muscolare, osseo-, che psicologico, combattendo alcune nevrosi, rimuovendo paure o ansie e superando gli attaccamenti. Ma se lo scopo dello yoga è di liberare le potenzialità evolutive dell’uomo e aiutarlo a realizzare il proprio Sé, non è auspicabile che il praticante passi attraverso la malattia: non bisognerebbe cioè sentirsi legittimati ad intraprendere un cammino di conoscenza di sé solo di fronte ad una patologia o ad un disagio –organico o psichico-. Recuperare l’assonanza che connette tutte le note dell’universo in un unico e magistrale arrangiamento è un compito imprescindibile e indilazionabile per l’essere umano: la sua ninfa è la consapevolezza, alimento che nutre tutte le sue dimensioni come ramoscelli affusolati attorno al rigoglioso e imponente arbusto dell’esistenza.

Tamburo il cuore, dove batte forte,
il ritmo costante della vita…
(A. Mele)

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