Esperimento al dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma. La risonanza magnetica svela i processi di immedesimazione
Emozione è guardare un’opera d’arte come se ci si trovasse al suo interno. Provare le stesse sensazioni dei suoi personaggi. Rievocare i movimenti compiuti dalle mani dell’artista. “L’abilità di un pittore coincide con la sua capacità, spesso inconscia, di rievocare un’emozione nel cervello dell’osservatore” spiega Vittorio Gallese, professore del dipartimento di neuroscienze dell’università di Parma ed esperto di neuroestetica, la scienza che cerca di spiegare il rapporto fra cervello e opere d’arte. Forte della sua esperienza nella scoperta dei neuroni specchio, Gallese ipotizza che le emozioni trasmesse da un’opera d’arte attraverso la tensione muscolare e le espressioni facciali dei suoi protagonisti si riflettano nella corteccia cerebrale degli osservatori. Le aree motorie che corrispondono ai muscoli tesi dei Prigioni di Michelangelo si attivano guardando i giganti che cercano di divincolarsi dalla pietra. I circuiti del dolore si “accendono” (a volte anche con un brivido) guardando le vittime dei Disastri della guerra di Goya. I neuroni specchio costituiscono quei particolari circuiti cerebrali (scoperti proprio a Parma una quindicina di anni fa) che ci fanno intuire le intenzioni o le emozioni altrui dai gesti del loro corpo o dagli atteggiamenti del loro viso.
Lo stesso meccanismo di empatia che ci permette di vivere in sintonia con gli altri sta alla base del nostro emozionarci di fronte a un’opera d’arte, ipotizzano Vittorio Gallese e David Freedberg, direttore dell’Accademia italiana di studi avanzati della Columbia University. Il neuroscienziato e lo storico dell’arte hanno appena pubblicato insieme uno studio su “Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica” sulla rivista Trends in Cognitive Sciences. “Per verificare fino in fondo le nostre ipotesi, stiamo svolgendo i test su un gruppo di volontari, osservando le loro reazioni cerebrali con la risonanza magnetica transcranica” spiega Gallese. La teoria dell’immedesimazione per spiegare l’emozione di fronte alle opere d’arte non è certo una novità, se già Platone usava il termine “mimesi” anche per riferirsi alla creazione artistica. “Ma l’osservazione di questo fenomeno alla luce delle conoscenze scientifiche moderne – spiega Gallese – rappresenta una novità”. “Rievocare” la sensazione di San Tommaso che infila il dito nel costato del Cristo, “simulare” lo sforzo dei Prigioni, “imitare” il gesto di Fontana che squarcia la tela non vuol dire compiere effettivamente gli stessi gesti.
“I neuroni si attivano come se dovessero squarciare la tela – spiega Gallese – ma senza impartire l’ordine ai muscoli”. Un’emozione di intensità eccezionale può forse spiegare la sindrome di Stendhal. “Forse – prova a ipotizzare Gallese – in questi casi i meccanismi che abbiamo descritto diventano ipereccitati, e l’attivazione del cervello raggiunge livelli ingestibili”.
Fonte: La Repubblica.it – 15 maggio 2007