E’ un lungometraggio che si interroga sulla felicità in modo diretto, concreto, senza orpelli scenici o concessioni seduttive verso il pubblico. La storia è ambientata ai giorni nostri in un paese ex-comunista dal cielo sempre plumbeo e grigio, con ambientazioni semplici, schiette, crude. Sullo sfondo: fabbriche, ciminiere, cavi dell’alta tensione. Nessuna scenografia ricercata, ma una fotografia nitida, quasi da videocamera in presa diretta. La storia è quella di un gruppo di ragazzi alla ricerca di un avvenire tutto da inventare, in una cittadina industriale e in un quartiere periferico, alle prese con la disoccupazione, con i forti richiami della devianza sociale, della droga e dell’alcolismo. Il fidanzato di Monika trova il modo di partire per l’America, mentre lei insieme a Tonik e Dasha rimangono a fare i conti con una realtà dura e scostante. Gli squarci sulla quotidianità all’interno degli appartamenti sono di un verismo straordinario, quasi documentaristico. Donne che cucinano e riassettano, mariti davanti alla tv o alle prese con l’ultimo giocattolo tecnologico. Tonik è da sempre innamorato di Monika, ma lei ama un altro e attende di andare a vivere con lui, magari in America.

Nel frattempo Dasha, madre di due bambini, insegue il suo innamorato, il quale però è sposato e non ha la forza di divorziare. Dasha progressivamente comincia a mostrare segni di squilibrio nervoso, di sempre maggiore instabilità emotiva. Trascura la casa, si abbandona a comportamenti irragionevoli quando non addirittura apertamente patologici. L’appartamento di Dasha è sporco, maleodorante, il frigo è vuoto e i bambini sono praticamente abbandonati. Monika comincia a rendersi conto che l’amica non è in grado di badare ai bambini e presta in tutti i modi il suo aiuto, fino a prendersi carico dei due bambini quando Dasha finirà in Ospedale psichiatrico. Tonik le sarà sempre accanto e grazie alla forza della scelta di Monika, decide di prendersi cura di se stesso. Il film mostra il ragazzo che mentre nelle scene iniziali era trasandato e malvestito, con la vicinanza di Monika e con la forza dell’amore per lei, progressivamente decide di smettere con l’alcool e con gli spinelli, cura maggiormente il vestire e le frequentazioni. Con la forza della sua decisione Tonik decide di ristrutturare il vecchio casale dove viveva: ripristina muri e condutture, piastrella bagni e progetta vasche idromassaggio formato ‘king size’, si libera delle carcasse di auto seppellite intorno alle mura.

Tonik e Monika creano una nuova famiglia, una nuova speranza per il futuro e la felicità sembra essere finalmente giunta. Ma all’improvviso, Dasha uscita dall’ospedale, piomba nel bel mezzo di una festa di compleanno e praticamente rapisce i propri figli da quella che era diventata una nuova famiglia sana dove provare a radicarsi. La magia scompare nuovamente e Monika decide di raggiungere il suo ragazzo in America. Tutto apparentemente sembra piombare un’altra volta nello sconforto, nel grigiore e nell’abbandono: muore la zia e Tonik vende il casale alla fabbrica. Ma quando le cose sono cambiate in meglio non possono essere ricambiate di nuovo (cfr. “Pretty Woman”). Nelle scene conclusive vediamo Monika di ritorno dall’America, al casale che con un sorriso dice “Sono tornata!”, e sembra dire che è veramente tornata per sempre, è tornata per rimanere. Non ha rinnegato le sue radici ed è alla ricerca di Tonik per costruire un nuovo futuro assieme. Gli ultimi fotogrammi ritraggono il sorriso di Monika mentre il treno scivola lungo la campagna. Un sorriso che è la promessa e la speranza della felicità.

Scheda del film:
Una cosa chiamata felicità, di Bodhan Slama
Rep. Ceca – 100 min. – Anno 2005
Concha de Oro al Festival di San Sebastian (Spagna)

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