Un gruppo di scienziati norvegesi propone di pompare Co2 nell’oceano per evitare che torni in superficie. E intanto in Italia si cerca di sfruttare al meglio la grande capacità di assorbimento delle foreste.
Ridurre la presenza di anidride carbonica nell’atmosfera? Da oggi si può: basta “pompare” grandi quantità di Co2 negli oceani. Questo inusuale approccio al problema dell’effetto serra arriva dalla Norvegia, da un gruppo di scienziati del Centro di ricerche ambientali Nansen di Bergen. L’idea è di utilizzare le piattaforme petrolifere, dove l’anidride carbonica viene emessa come prodotto secondario delle operazioni, e incanalarla in tubazioni che la riverserebbero nel mare, a diverse profondità. L’esperimento, in realtà, non è altro che l’accelerazione di un processo naturale: l’oceano assorbe già anidride carbonica dall’atmosfera, ma lo fa con estrema lentezza. Pompare Co2 a profondità vicine ai 900 metri significherebbe invece “annegarlo”, non farlo tornare in superficie: grazie alle correnti l’acqua “gassata” si sposterebbe dal mare di Norvegia (secondo gli scienziati del Nansen, il luogo più adatto per l’esperimento) fino all’oceano Atlantico. Qui l’anidride carbonica disciolta rimarrebbe per secoli e secoli, senza tornare fuori. Ciò che propongono gli scienziati norvegesi è per ora solo un esperimento su scala limitata.
Molte restano infatti le incognite legate a un procedimento del genere: non è ancora chiaro, per esempio, che effetto potrebbe avere sulla vita marina l’aumento dell’acidità provocato dall’aggiunta di Co2 nelle acque. La battaglia contro l’effetto serra, intanto, continua anche nel nostro Paese, ma anziché dal mare la soluzione stavolta sembra arrivare dalla foreste. Le chiome nostrane sembrano infatti assumere un’importanza strategica per mantenere l’impegno di abbattimento dei gas nocivi, previsto dal protocollo di Kyoto. Se conteggiate come fattore di riduzione, le foreste sarebbero in grado di assolvere al 24 per cento dell’obiettivo italiano: ridurre, entro il biennio 2008-2010, le emissioni di gas a effetto serra del 6,5 per cento rispetto ai livelli del 1990. Questo modo di conteggiare le riduzioni di Co2 in passato non ha convinto l’Unione europea, tanto da essere tra le principali cause della rottura delle trattative con gli Usa per la ratifica del famoso protocollo. Solo le nuove aree destinate a foresta rispetto al 1990 dovrebbero essere considerate una diretta riduzione delle emissioni di gas, e non la superficie complessiva, poiché preesistente.
In base alla Relazione sullo stato dell’ambiente del 2001, le foreste ricoprono 6,8 milioni di ettari, pari al 22,7 per cento del territorio nazionale, e si stima che con i boschi minori si possa raggiungere quota 10 milioni di ettari. Il livello di utilizzo dei boschi ai fini produttivi è piuttosto basso (1,7 per cento). Per gli imboschimenti e i miglioramenti della flora sono stati stanziati, dal 1994 al 1999, circa 1.600 miliardi di lire. La superficie imboschita ex novo, soprattutto di latifoglie pregiate quali ciliegi, noci, aceri, è stata di almeno 54mila ettari, mentre miglioramenti di boschi degradati hanno riguardato circa 21mila ettari. Le foreste italiane sono grandi assorbitori di Co2, uno dei principali gas a effetto serra. Mediamente, negli anni Novanta, hanno assorbito attraverso le chiome degli alberi una quantità pari a circa 24 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno, che rapportata alle emissioni pari a circa 450 milioni di tonnellate all’anno ne rappresenta il 5 per cento. Ma il nostro patrimonio boschivo è ancora troppo a rischio. Sul fronte degli incendi, il 2000 è stato un anno record con 8.600 casi (di cui il 60 per cento dolosi), che hanno mandato in fumo 110mila ettari di territorio di cui la metà boscata per una media di 13 ettari bruciati ogni incendio. Altro grave fenomeno è quello del deperimento dei boschi, che sta interessando principalmente l’abete rosso e varie specie di pino, nonché il faggio, il pioppo e le querce. Queste ultime, diffuse su circa un milione e 700mila ettari, rappresentano più di un quarto della superficie forestale nazionale; il processo di deperimento delle querce (causato spesso dai funghi) è gravissimo in diverse zone del meridione dove tocca percentuali vicine al 60 per cento. A questa situazione si aggiunge una nuova minaccia, segnalata dall’Integrated Monitoring of Ecosystem delle Nazioni Unite: si tratta del mix micidiale formato dall’inquinamento atmosferico e dai cambiamenti climatici, che rischia di compromettere gravemente i polmoni verdi del vecchio continente. Solo per quanto riguarda la pianura padana, ogni anno si depositano oltre 30 chili di azoto per ettaro. Le concentrazioni di ozono, poi, raggiungono sul territorio nazionale picchi di 60-70 parti di miliardo.
Si determinano, così, danni non solo alla vegetazione ma anche a falde acquifere e corsi d’acqua. Oceani o foreste che siano, trovare la soluzione al problema dell’effetto serra diventa comunque una priorità per tutti i potenti della Terra. Dalla Banca Mondiale è infatti arrivato di recente un allarme dai toni apocalittici: i principali responsabili dell’effetto serra sono i Paesi industrializzati, ma a pagarne le conseguenze saranno soprattutto quelli in via di sviluppo. Il grande caldo porterà nel Terzo Mondo ancora più povertà, fame e malattie e decine di milioni di persone saranno costrette ad abbandonare le proprie terre a causa dell’innalzamento del livello del mare. Robert Watson, il capo degli esperti scientifici della Banca, ha richiamato così ancora una volta l’attenzione della comunità internazionale sulla questione del cambiamento climatico. “La temperatura della Terra – ha detto Watson – sta aumentando sempre di più e il tasso di riscaldamento dell’ultimo secolo è probabilmente senza precedenti negli ultimi 10mila anni. La stragrande maggioranza degli scienziati di tutto il mondo concorda sul fatto che il cambiamento del clima è in parte attribuibile alle attività umane”.
Quali sono gli effetti già visibili? “Prove scientifiche – ha spiegato Watson – hanno dimostrato che i principali ghiacciai non polari si stanno ritirando e che i lastroni di ghiaccio del mare Artico stanno diventando sempre più sottili, soprattutto durante l’estate, minacciando l’esistenza degli orsi polari. Stiamo anche assistendo a cambiamenti negli ecosistemi, per esempio nella migrazione e nella deposizione delle uova da parte degli uccelli. E le perdite economiche dovute a eventi climatici estremi sono aumentate in modo sostanziale negli ultimi anni”. Che cosa succederà allora? La temperatura della Terra è destinata a salire di 2,5-10,4 gradi nei prossimi 100 anni e il livello del mare potrebbe crescere di ulteriori 7,5-88 centimetri entro la fine del ventunesimo secolo. Isole e regioni in pianura del Sud dell’Asia, del Sud Pacifico e dell’Oceano Indiano potrebbero sparire sott’acqua, costringendo decine di milioni di persone a emigrare. Il grande caldo farà poi proliferare gli insetti nelle regioni tropicali e sub-tropicali, aumentando il rischio di malaria e altre malattie. Inoltre, a causa della siccità le risorse idriche saranno sempre più scarse proprio nelle zone del mondo dove già l’acqua potabile è un lusso. “Circa 1,7 miliardi di persone – ha continuato Robert Watson – vivono in aree dove le risorse idriche sono già limitate. Il numero di assetati è destinato a salire a circa 5,4 miliardi nei prossimi 25 anni”. Sempre a causa della siccità diminuirà anche la produzione agricola: a rischio saranno soprattutto le regioni dell’Africa sub-Sahariana, il cui sostegno principale è proprio l’agricoltura. Ironia della sorte: proprio le nazioni che producono quantità bassissime di anidride carbonica saranno quelle più colpite dall’effetto serra.