La scienza sta manipolando il nostro cervello: l’accusa di un grande biologo
Steven Rose sostiene che siamo alle soglie di una «rivoluzione neuro-tecnologica». Ma non è trionfalista, anzi. Secondo lui i crescenti investimenti nella ricerca sul cervello sono pilotati in una direzione pericolosa: il controllo,di stampo autoritario sulle nostre menti. E sono alimentati da una cultura che si è infilata in un vicolo cieco e non può portare a una vera comprensione dei nostri meccanismi mentali. Rose è abituato a lottare in prima linea. Lo fa da mezzo secolo. Fin da quando, erano gli anni Cinquanta ed era ancora uno studente a Cambridge, incontrò la compagna della sua vita, la sociologa Hilary Chantler, con la quale ha creato un indistruttibile binomio politico, culturale e sentimentale. Da allora, dalla sua cattedra di Biologia alla Open University di Londra, dove oggi dirige un gruppo di ricerca su cervello e comportamento, accusa le aziende farmaceutiche di voler commercializzare il cervello umano e polemizza contro i colleghi biologici che secondo lui sopravvalutano il ruolo dei geni per spiegare il comportamento umano. Rose, a 68 anni, continua a fare ricerca. “Il cervello nel ventunesimo secolo”, appena pubblicato in Italia da Codice Edizioni, è la sua ultima sfida. Una sua conferenza era prevista al Festival della Scienza di Genova, ma problemi di salute lo hanno indotto ad annullare il viaggio. In quest’intervista racconta quello che avrebbe voluto dire.
Siamo davvero all’inizio di una rivoluzione?
«Gli anni Novanta sono stati chiamati il decennio del cervello. Molti definiscono quello in corso il decennio della mente. La ricerca nel settore sta lievitando. Ormai sono 30 mila gli scienziati che si incontrano ogni anno al meeting dell’American Society for Neuroscientist. Tutto questo ci permette di accumulare un’immensa mole di dati. Ma per una vera rivoluzione manca una comprensione teorica che ci consenta di mettere tutto insieme».
Da dove nasce il grido di allarme?
«C’è un crescente interesse per l’uso delle neurotecnologie per il controllo sociale. Mi preoccupa lo sviluppo di farmaci come il Ritalin, che servono per il controllo dei bambini a scuola, soprattutto negli Usa. Si danno sempre più farmaci ai bambini invece di mandarli nelle scuole giuste. E negli ultimi anni si è verificato quello che io chiamo l’arruolamento della neuroscienza nella guerra al terrorismo».
Di che cosa si tratta?
«C’è l’idea che le neuroimmagini, ottenute con tecniche come la risonanza magnetica, possano essere usate per individuare potenziali terroristi. E che la stimolazione di aree del cervello possa essere utile per le tecnologie militari. Queste ricerche sono finanziate, negli Stati Uniti, dal Darpa, la Defence Advance Research Project Agency. Si tratta di tendenze preoccupanti».
Nel ’75 un gruppo di bioscienziati riuniti ad Asilomar chiese una moratoria per riflettere sulle ricerche nelle bioscienze. Una cosa simile è ripetibile oggi?
«Non credo sia possibile. Né sarebbe una buona cosa per gli scienziati. Sono invece a favore di una partecipazione pubblica nel decidere queste direzioni. C’è un’iniziativa europea per creare una giuria di cittadini sullo sviluppo delle neuroscienze. Le neuroscienze sono una cosa troppo importante perché sono lasciate nelle mani degli scienziati».
Lei dice che queste tecnologie possono portare a un “controllo autoritario sulla nostra vita”…
«L’industria farmaceutica determina la direzione in cui va la ricerca scientifica nelle bioscienze e nella genetica. E questo per diverse ragioni: da una parte l’industria investe sempre più nell’università; dall’altra cresce il numero di scienziati che fondano aziende, possiedono partecipazioni azionarie o brevetti. Questo sta cambiando radicalmente il mondo della ricerca,che dipende sempre più dagli interessi finanziari. Certo non possiamo più tornare al bel tempo antico. Ma abbiamo bisogno di maggiore trasparenza sugli investimenti e sugli interessi che certi individui hanno nel fare annunci alla stampa».
Quali sono i rischi di usare le neuroimmagini per guardare dentro il cervello?
«Mi preoccupa il lato sociale e culturale della vicenda, le conclusioni che si vogliono trarre dall’osservazione di queste immagini:determinare se una persona è psicopatica o ha qualche disturbo mentale. Negli Stati Uniti il Darpa finanzia ricerche per interpretare e influenzare i pensieri delle persone. Recentemente si è saputo che ci sono ricerche in atto per capire se qualcuno è stato una fonte d’informazioni per i terroristi o ha visitato un loro campo di addestramento».
Lei parla del rischio di creare una “società psico-civilizzata”. Cosa significa?
«La definizione è stata introdotta anni fa dal noto fisiologo spagnolo José Delgado. Intendeva dire che se sapessimo di più come funziona il cervello,potremmo controllare quello che la gente pensa usando elettrodi per rilevare l’attività elettrica, il cosiddetto “brain fingerprinting”, l’impronta digitale cerebrale. Se ciò fosse possibile, sarebbe un incubo, alcune élites al potere sarebbero in grado di controllare parte della popolazione attraverso il controllo dei loro cervelli».
Nel suo libro lei si sofferma a lungo anche sui rischi delle teorie riduzioniste. Sostiene che il cervello non può essere capito solo attraverso i neuroni e i geni, come molti suoi colleghi cercano di fare. Può spiegare che cosa intende?
«La differenza sta nella cultura. Una cosa è il cervello e le sue attività. Un’altra cosa è la mente. Per avere una migliore comprensione della mente, bisogna capire le persone e il loro cervello in un contesto socio-culturale. Non si può decifrare l’attività cerebrale solo guardando quello che avviene dentro il cervello in ogni istante. Solo implicazioni più ampie possono dare senso a quello che la gente dice, pensa o fa. Abbiamo bisogno di un approccio più integrato».
Quali modelli suggerisce?
«Il riduzionismo ha prodotto una serie di dicotomie. Gli esempi sono numerosi: natura e cultura,geni e ambiente,mente e cervello,psicologia e neurologia,eccetera. Ma queste dicotomie non sono “oggettive”, appartengono invece solo alla storia della scienza occidentale. In altre tradizioni culturali non esistono. On in quella cinese,o i quella indiana. E neppure nella tradizione marxista,nei primi anni dell’Unione Sovietica,negli anni Venti del secolo scorso. Il riduzionismo scientifico occidentale ci offre una prospettiva seducente da cui guardare il mondo. Ma questa prospettiva non è adeguata per comprendere la complessità dei processi che avvengono nel cervello. Credo che non dovremmo ignorare altre tradizioni culturali».
Che cos’è la coscienza?
«Se per coscienza si intende semplicemente, come fanno alcuni miei colleghi neuroscienziati, quello che succede nel cervello quando una persona è sveglia, o dorme, allora sappiamo parecchio sulla biochimica di questi processi. Ma se si intende la coscienza nel senso inteso da Freud, o da Marx, o dal femminismo, allora le neuroscienze sono ancora lontane dal fornire una buona teoria».
È pessimista guardando al futuro?
«Negli anni Settanta, quando scrissi “Il cervello cosciente” ero più ottimista. Oggi sono più scettico, vecchio e saggio. Il mio amico Martin Rees, astronomo, un paio d’anni fa ha scritto un libro ponendo una domanda: la razza umana riuscirà a sopravvivere al XXI secolo? È un interrogativo molto serio. Antonio Gramsci diceva che bisognava avere il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Conosco bene il primo, ma oggi faccio fatica a trovare il secondo».