Un’esperienza spirituale

In una piovosa domenica sono andata a vedere la mostra dedicata al pittore statunitense Mark Rothko (1903-1970) insieme ad alcuni amici, spinta dalla curiosità di visitare il Palazzo delle Esposizioni restaurato e finalmente riaperto al pubblico e dalla fama che accompagna il nome di Rothko. Infatti c’era una lunga fila per poter entrare. L’esposizione ben organizzata e articolata metteva in luce il percorso dell’evolversi dell’artista attraverso le sue opere, evolversi che rispecchiava anche gli eventi storici spesso tragici da lui vissuti. Il mio approccio superficiale alle opere però mi lasciava fredda, cercavo di interpretare, mi facevo guidare da quello che leggevo nei cartelli esplicativi predisposti dall’organizzazione e dal materiale informativo che avevo raccolto. Ma restavo indifferente. Leggendo il vario materiale, però, mi sono ad un certo punto domandata: ma cosa voleva comunicare l’artista? Perché trovo scritte delle interpretazioni che, però, io non ritrovo? Come è possibile? Anche gli amici che erano con me erano scettici, delusi.

Allora ho cambiato atteggiamento, approccio. Mi sono voluta immergere nel quadro, mi sono estraniata da ciò che mi circondava e mi sono messa in posizione di ascolto di me e dell’altro (l’artista) ed ecco che le cose sono cambiate. Il quadro, una grande tela con dipinti rettangoli colorati di varie dimensioni e colori, rosso, arancio, giallo, senza confini ben definiti, sfumati, ha preso vita. I colori non erano più piatti, solo frutto di un pennello intinto nel colore, ma avevano un loro movimento, mi avvolgevano, non erano più uniformi. La sensazione era forte e piacevole. Procedendo nella visita alla mostra, invece, di fronte ad un quadro sempre molto grande con soli due colori, grigio e nero, ho rivissuto la stessa forte sensazione ma questa volta avvertendo angoscia. Non so se è questo quello che voleva trasmettere l’artista. Forse ha voluto lasciare ad ogni spettatore la libertà delle proprie sensazioni, non dando un titolo a molte sue opere, ma identificandole semplicemente con un numero. Comunque, è riuscito a creare un contatto con lo spettatore (con me), è riuscito a creare un’opera d’arte, è riuscito a creare quella bellezza che va oltre l’opera stessa, bellezza indistruttibile, eterna, che supera ogni confine, di cui tutti possono fruire e che è stata creata per donare e per comunicare.

Un’opera creata non per se stessi ma per il mondo, per dare voce ai propri pensieri e non lasciarli relegati nel proprio intimo. Questa volontà di esprimersi spiritualmente, di stabilire una relazione di scambio attivo tra le opere e il pubblico, Rothko l’ha ben espressa parlando della sua scelta di dipingere su grandi tele: “Dipingo quadri di grandi dimensioni; sono consapevole che storicamente dipingere quadri enormi comportava un aspetto imponente e pomposo. Ad ogni modo, la ragione per cui li dipingo è precisamente perché voglio essere intimo e umano. Dipingere un quadro di dimensioni ridotte vuol dire mettere se stessi fuori dalla propria esperienza, considerare un’esperienza attraverso uno stereoscopio o una lente che rimpicciolisce. Quando si dipinge un quadro di grandi dimensioni, ci si è dentro.” Ecco anche l’artista ha espresso la grande forza che viene dall’ascolto di sé, dall’allontanarsi dall’affanno dell’uomo moderno per il progresso e dalla corsa per raggiungere chissà quale meta irraggiungibile che porta, quindi, frustrazione. C’è un invito all’uomo ad ascoltarsi, a non soffermarsi all’apparenza, alla superficie ma a ritrovare quella grande bellezza che è dentro di noi e che non c’è bisogno di ricercare in paradisi sperduti. Grande mostra, esperienza sublime.

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