Cos’è la riparazione e perchè può aiutarci a diventare persone migliori

Nulla è perduto, tutto si può aggiustare

 

Se partiamo dall’idea o dalla aspettativa che le relazioni umane siano perfette, allora non abbiamo alcun bisogno di riflettere sulla riparazione. Se invece siamo disponibili ad accettare che il senso dell’esperienza umana si dipana e si costruisce anche attraverso eventi dolorosi, allora dobbiamo fermarci ed interrogarci su quali elementi possono contribuire a migliorarla. La fine dell’800 ha visto comporre scenari sociali che progressivamente andavano fondandosi sulla cultura delle macchine, sulla produzione di beni e servizi, sul progressivo spostamento dall’individuo alle merci. Una rivoluzione relativamente recente se si pensa che per migliaia di anni l’individuo ha prodotto strumenti a partire da altri oggetti: coltelli e frecce dalle schegge di silice, scodelle dalle zucche, archi da caccia dai rami d’albero, nuove statue di bronzo dalla fusione di altre statue. Intere civiltà hanno basato il loro percorso sull’intelligenza modulatrice, sulla riparazione e sul riadattamento di oggetti per prolungarne il funzionamento o per produrre altri oggetti. Ancora oggi, emblematico a Cuba è l’uso di automobili degli anni ’40 e ’50, continuamente riparate e restaurate conferendo loro un fascino e un’esistenza virtualmente eterna.

Ma la cultura industriale, con la sua necessità di fondarsi sul profitto, sul tornaconto, sulla produzione in serie, negli ultimi 150 anni ha prodotto un radicale mutamento nella cultura. Questa trasformazione ha – tra l’altro – coniato il termine ‘anti-economico’ per identificare tutti quei processi privi di convenienza. Se l’interesse, la competizione ed il vantaggio personale assurgono a valori socialmente condivisi ed apprezzati, allora riparare, aggiustare, accomodare, accordarsi, cooperare, trovare un punto di incontro, rischiano di diventare modalità relazionali obsolete. Quante volte ci siamo sentiti dire che accomodare la nostra radiolina in modulazione di frequenza era anti-economico perché il costo della riparazione era analogo (o a volte superava di gran lunga) il costo della medesima radiolina nuova, più moderna, efficiente, tecnicamente aggiornata e migliorata? Quante volte a fronte di un piccolo graffio nel fanalino posteriore dell’automobile ci viene richiesta la sostituzione di un’intera porzione di fiancata dell’auto, comprendente l’intero gruppo ottico di 5 fanali, a causa del fatto che produrre, confezionare, trasportare, distribuire, commercializzare soltanto il singolo fanalino è ‘anti-economico’?

Non si tratta di un’apologia del passato ma di riflettere sul senso di alcuni concetti che nascono in determinati settori, dove forse sono effettivamente positivi, e poi tendono ad essere pericolosamente assorbiti fuori dal contesto originario, rischiosamente universalizzati. L’idea di convenienza, il presupposto che ogni elemento della vita debba essere ottimizzato, perfettamente tesaurizzato fino al miglior rapporto costi/benefici, è migrato dagli ambiti strettamente commerciali fino agli ambiti umanistici. Questa rivoluzione non si è quindi limitata agli aspetti economici, ma è invece penetrata profondamente fin nel tessuto delle relazioni sociali, umane ed affettive. È ampiamente noto il fenomeno, purtroppo ormai non più esclusivamente adolescenziale, dove, se sorgono le prime difficoltà con un partner, piuttosto che ‘riparare’ la relazione, si preferisce sostituire la persona. Le relazioni umane acquisiscono sempre più aspetti che li fanno assomigliare a merci o a prodotti, e quindi inevitabilmente sottoposti alla legge di mercato: conveniente, adeguato, efficiente, vantaggioso, ecc.

Queste modalità relazionali, inquinate da idee e pensieri provenienti da altre sfere, dal punto di vista psicologico sono invece fortemente distruttive. Le relazioni umane infatti sono cariche di significati e di emozioni, spesso difficilmente univoche o esclusivamente singolari. Sono piuttosto impregnate di incertezze, ambivalenze, errori, contraddizioni che fanno a pieno titolo parte dell’espressione e della comunicazione. Se l’individuo del XXI° Secolo viene spinto ad identificarsi con i concetti di efficienza e perfezionismo, egli è inevitabilmente condannato ad un’esistenza dolorosa e frustrante. Credo che sia quindi importante – pur senza alcun romanticismo o nostalgia del passato – rivalutare il concetto di riparazione: l’arte del rammendo e del perdono. L’errore è sempre possibile (vedi Kintsugi, la pratica giapponese della riparazione): ma se non conosciamo il valore di ‘restaurare’ e ‘ricucire’ uno strappo, siamo destinati all’isolamento affettivo.

Il bambino piccolo e il neonato trascorrono eventi fortemente carichi di contenuto emozionale: quando ha fame il neonato esperisce un forte disagio che se non soddisfatto, progressivamente diventa rabbia, e poi ira furibonda. È sicuramente capitato di vedere un neonato rosso di rabbia, piangere in preda ad una collera che stupisce di osservare in bambini così piccoli. Eppure la violenza delle emozioni in un neonato è tale da essere auto-esperita come travolgente, pericolosamente invadente. Il neonato, con una psiche ancora in formazione e priva di strutture e argini contenitivi, quando è preda della rabbia, vive un’esperienza intensa, dilagante, straripante. I famosi e ormai notissimi studi della Melanie Klein hanno dimostrato che nel bambino molto piccolo, è come se la rabbia si diffondesse interiormente, priva di quegli ostacoli che all’adulto permettono di contenere, orientare, dirigere e controllare la rabbia. Il bambino che anche solo per un momento ha odiato (magari solo perché in quell’istante fortemente affamato), finisce poi per essere intensamente scosso da quel sentimento così difficile da accettare. Aver provato odio è come se rappresentasse una sorta di condanna, una sentenza complessiva non più circoscritta al singolo evento che l’ha provocato, ma dilagasse come un esercito nemico fino ad occupare e impossessarsi dell’intero individuo.

Appare quindi di fondamentale importanza che l’adulto possa aiutare il bambino a scovare e poi sviluppare le proprie competenze nell’ambito della riparazione. Se non aiutato a riparare (per l’odio con cui egli ha immaginariamente distrutto il mondo circostante) il bambino prova un violento senso di colpa. Egli si sente e si immagina fortemente cattivo: si percepisce fantasiosamente spregevole e indegno dell’amore che poi riceve dai genitori. Il bambino che non ha imparato a riparare, facilmente può trasformarsi in un adulto timoroso, con un basso grado di autostima, a volte intensamente timido, sempre preoccupato di essere ‘politically correct’ e di non disturbare nessuno per la sua presenza. È come se avesse timore di esprimersi per paura di far del male a qualcuno, come se in fantasia, la sua rabbia potesse essere simile ad una bomba atomica dal potere immensamente distruttivo e quindi da tenere fortemente sotto controllo. Se non addestrato alla riparazione, il bambino anche può immaginare che l’odio non ha soluzione. È definitivo, una condanna eterna, infinita ed interminabile. In questo caso, può trasformarsi in un adulto violento, a volte socialmente pericoloso a causa della sua inconscia mancanza di speranza. È un po’ come se nel profondo avesse la sensazione che non ci sarà nulla che lo potrà salvare: è definitivamente cattivo e ormai non ha più nulla da perdere.

riparazione_kintsugiIl bambino invece che ha imparato a riparare può più facilmente diventare un adulto integrato, consapevole delle proprie parti luminose ma anche delle proprie parti oscure. Questo adulto deve investire molte meno risorse energetiche per fronteggiare le proprie parti oscure, perché profondamente sa che può perdonare e perdonarsi, sa che può rammendare gli strappi. Non si tratta di una conoscenza razionale, logica, cerebrale: perché tutti – almeno in teoria – sappiamo che possiamo perdonare. Ma poi, nei fatti, il perdono autentico e sincero è tutt’altro che agevole e alla portata di tutti. L’adulto che ha imparato il valore della riparazione non ha più così tanto bisogno di controllare il proprio mondo emotivo perché ne ha una maggiore e intuitiva familiarità, e soprattutto esso non viene percepito come un pozzo oscuro e pericoloso. L’adulto che continuamente si allena nella riparazione fattiva e concreta dei propri errori è più facilmente disponibile al senso di gratitudine, di riconoscenza. Non si tratta semplicemente di chiedere scusa in maniera banale e priva di reale contenuto autentico. Quanto piuttosto di saper entrare empaticamente nel dolore dell’altro, da noi causato e poi di uscirne, di sopravvivere al senso di colpa. La paura di non sopportare il dolore da noi causato è spesso il motivo per cui la riparazione è così difficile, oppure spesso espressa in modo vuoto e superficiale. La riparazione autentica, quella che realmente ha attraversato un sincero processo di perdono, supera la frase di circostanza e diventa quindi un atto concreto, un gesto, un’opera.

L’adulto che ha imparato – pur faticosamente – a riparare è in grado di progettare il proprio futuro con una dose di speranza e di fiducia che mancano in altri individui meno preparati all’arte del rammendo. Chi sa riparare e chi ha imparato a perdonare affronta l’avvenire con ottimismo e con la certezza che ogni cosa andrà al suo posto. E se poi qualcosa dovesse andare storto, si può sempre aggiustare.

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