La favola western di Sergio Leone

Il western più ambizioso di Leone, una trama ellittica e barocca per raccontare la fine di un mondo di titani, buoni o cattivi, sostituiti (come nel Gattopardo di Tommasi-Visconti) da uomini banali e comuni. Dalla civiltà nomade del cow-boy e del pistolero a quella stanziale simboleggiata dalla città che sorge, dalla ferrovia che avanza, sospinta dall’avidità del magnate Ferzetti, che cerca nel denaro e nel potere la compensazione ad un “imputridimento” interiore. In bilico fra la storia e la mitologia, il film è un omaggio al western classico, ai suoi stereotipi, citati ma anche rivisti criticamente. A differenze del western più tipico di Ford di Welmman e di Curtiz, perno della storia e l’ex prostituta Jill: una donna che si riscatta, che gareggia in titanismo con gli uomini, che vive un ruolo non subordinato, archetipo di un “femminile” determinato che verrà presto inghiottito da una civiltà anonima e massificante.

Memorabile il lungo prologo senza parole (con impercettibili movimenti di macchina degni dei migliori Welles e Kubrick), con una drammatica e perfetta combinazione di rumori, musica ed immagini. Per questa sequenza Leone avrebbe voluto i protagonisti del suo film precedente (il Buono, Il Brutto e il Cattivo), quasi a significare il passaggio di un’epoca, il tramonto d’ideali e di miti da pionieri ed avventurieri che s’incamminano verso una civilizzazione che appiattisce e che impedisce ogni esplorazione. In fondo Leone attua una ricerca, a tratti macchinosa ma nel complesso affascinante, di quel territorio tra realtà e leggenda, fra mito e storia, fra stereotipo ed innovazione, che è il western cinematografico. E se ne serve per parlare di uomini, veri artefici di un rinnovamento che sembra estendersi senza fine. Lasciando da parte suspense e violenza, che avevano contrassegnato la produzione precedente (la cosiddetta trilogia della pistola), Leone indaga, servendosi di un genere popolare, il “mito delle origini” e si chiede da quale razza discenda l’uomo contemporaneo e come, dei giganti, abbiano potuto produrre una società tanto piatta ed omologata.

Sotto il profilo più storiografico il film, con grande abilità nell’individuazione di tipi e paesaggi (molte sequenze sono state girate nella Monumental Valley di Ford) analizza i motivi del western classico, scarnificandoli, svuotandoli ed assieme “riqualificandoli”, con caratteri in piena luce, nuovamente potenziati e rimpianti con sincera nostalgia. I ritmi geometrici delle sequenze del treno e dei duelli, la vicenda che ruota attorno ad un cattivo “atipico” (Henry Fonda nell’unico ruolo negativo della sua carriera cinematografica), le soluzioni sceniche spesso espressionistiche (nella città che cresce ed occupa il deserto o nella posada, durante il primo incontro fra Armonica e Cheyenne) sono gli ornamenti di un film espressivo di un linguaggio ricco, a volte mal controllato, ma che esprime un sincero amore per un genere e per dei tempi ormai inesorabilmente tramontati. In definitiva il film ci porta ad una desolata conclusione: il declino dell’uomo inizia con la civiltà, con l’avidità del denaro e quando la violenza del singolo è rimpiazzata da una violenza istituzionale, nascosta dietro a maniere molto borghesi, ogni civiltà arretra ed imbarbarisce.

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