Anoressia e i disturbi del comportamento alimentare

Assomiglia ad un comandamento di natura laica, ma anche questo, come altri religiosi, è tra i più inascoltati. A cominciare dal fatto che pochi riuscirebbero a riconoscere di averne uno. Cos’è il vuoto interiore? Sarebbe un controsenso, un inaccettabile paradosso: come si fa ad avere un vuoto interiore se si vive immersi nel ventre grasso, pieno e ferace dell’opulenta società occidentale? Eppure questa è la prima considerazione che dobbiamo fare se vogliamo avvicinarci a comprendere – tra gli altri – l’apparente nonsenso della morte di giovani ragazze ossessionate dal cibo e dal proprio peso.

I manuali di psicodiagnostica, nel loro lessico astratto e scientificamente distaccato la chiamano “Anoressia: disturbo multiplo del comportamento alimentare”, ma la verità è che è un mostro con tante teste. Tra i primi a negare il vuoto vi sono anche coloro che avevano il compito di aiutare chi ne soffre. Fino al 1930 la classe medica – che aveva l’esclusiva dei trattamenti in questo campo – riteneva che la causa fosse esclusivamente di origine fisica: un insufficienza grave della ghiandola pituitaria da trattare con un importante trattamento endocrinologico a base di somministrazione di massicce dosi di ormoni e altri neurotrasmettitori.
Una specie di elettroshock su base chimica. Una sorta di follia collettiva investiva entrambi i soggetti coinvolti: pazienti e medici. Entrambi ossessionati dal corpo, dalla sua materialità, e dall’idea che la “macchina perfetta” si fosse incomprensibilmente guastata. Un errore che – a mio parere – investe ancora oggi molte altre aree della salute, della ricerca medica e scientifica. L’errore è che siccome il disturbo è visibile nel corpo allora la causa va cercata necessariamente nel corpo stesso: nell’ipofisi e nell’ipotalamo, nelle cellule, negli equilibri ormonali. Come spesso accade, soltanto quando tutte le ipotesi organiche cadono e debbono necessariamente soggiacere all’inefficacia dei loro interventi, allora si invoca – spesso con atteggiamento dogmatico, ironico e superficiale – l’origine psicologica: la ragazza è nervosa, forse un po’ stressata, magari si è anche lasciata con il moroso. In tutti i casi, l’importante sembra sia di negare l’esistenza del vuoto. Anche dopo il 1930, quando gli psicologi furono ammessi alle discussioni sull’Anoressia, la concezione materialistica della salute impediva di prendere in considerazione cause che non fossero visibili e tangibili.

A mio parere le cause dei disturbi alimentari sono certamente molte e non ripeterò qui quello che può facilmente essere rintracciato nei moltissimi manuali oggi in circolazione, compresi gli interventi multidisciplinari. Mi interessa però sottolineare un aspetto secondo me molto trascurato perché erroneamente considerato impalpabile e astratto e quindi non preso in seria considerazione. Il vuoto interiore è considerato un concetto etereo e per questo confuso con irreale, teorico, vago. Eppure l’Anoressica riesce, purtroppo attraverso un grandissimo dolore, a rendere il vuoto interiore un concetto reale, concreto, visibile. In realtà il vero difetto di questa mia riflessione sulle cause dei disturbi alimentari non è la mancanza di verità, ma semmai la difficoltà di porvi rimedio. È un po’ come i problemi ambientali: nessuno ne vuol sentire parlare più di tanto perché sono talmente complessi, globali, interconnessi e le sue soluzioni talmente impegnative che la questione viene rapidamente liquidata come esageratamente allarmista, catastrofista e menagramo.

Il punto centrale dei disturbi alimentari, come di molti altri disturbi, parte dalla negazione del proprio vuoto interiore. Sono ormai quasi duecento anni che la nostra cultura propina merci e servizi, assegnandogli significati e valori esistenziali che essi non hanno. Trovo che le persone soffrano molto di questa schizofrenia collettiva in cui tutti sono coinvolti nella recitazione di una felicità acquistata. Conta poco dove sia stata acquistata. Al supermercato, dal farmacista o dal pusher in discoteca: importante è che sia un prodotto industriale, socialmente condiviso, di marca. Siamo sommersi dall’inutile, ma anche sprofondati nel fideismo cieco e totale nella tecnologia, attendendo che scienza fornisca risposte alle nostre domande. Troviamo del tutto normale recarci in ufficio a svolgere mansioni incomprensibili, sbrigare pratiche di cui non conosciamo l’origine né mai conosceremo l’esito. Ci sforziamo di raccontare a noi stessi che però esiste un senso a tutto questo, ma poiché viviamo in una società complessa non è facile trovarlo. Ma poi non riusciamo a spiegare ai nostri figli a cosa serve il nostro specifico lavoro, né che esito avrà il foglio di carta che in questo esatto momento si trova sulla nostra scrivania.

Troviamo del tutto normale dedicare un minuto al risveglio, un minuto e mezzo alla colazione, 1 minuto per salutare nostro figlio (se l’accompagna la mamma) o 40 minuti se siamo noi ad accompagnarlo a scuola. Troviamo del tutto normale lavorare 10 ore al giorno senza sapere, alla fine della giornata, cosa esattamente abbiamo fatto. Troviamo del tutto normale giocare con nostro figlio nel pomeriggio settimanale assegnatoci dal turno famigliare, mentre l’altra mano fa zapping con il telecomando. Troviamo del tutto normale prendere qualche goccia di ansiolitico (tanto si sa che due o tre gocce non faranno male), giusto per prendere sonno, quel tanto che basta per essere sicuri di un sonno profondo e senza sogni.

Però troviamo anormale se poi nostra figlia decide di non mangiare, di ribellarsi, decide di rifiutare questi valori condivisi e si ostina paradossalmente ad aderire rigidamente alla moda, ai suoi valori estetizzanti. Troviamo che qualcosa non va se poi nostra figlia si identifica con la mitologia del denaro, delle modelle e delle indossatrici, il cui unico valore sembra essere fuori di loro, nell’abito di marca indossato e visibile. Troviamo qualcosa di strano nell’accorgerci che si sente vuota come quelle indossatrici, vuota come Essere Umano. È curioso che rifiuti il cibo che produciamo con il nostro lavoro, che acquistiamo nei supermercati dagli scaffali opulenti, il cibo che abbiamo creato, il cibo che introduciamo dentro di noi, il cibo che si trasforma, il cibo che diventa ciò che noi siamo. C’è qualcosa che non va se nostra figlia non riesce ad accettarlo e lo vuole vomitare: c’è qualcosa che non va se nostra figlia non riesce a trattenerlo dentro di sé, non riesce ad accettare che esso si trasformi in se stessa. Troviamo che sia da malati mentali se qualcuno si oppone a tutto questo ben di Dio nel quale viviamo immersi, per nostra fortuna e per sfortuna di quei poveracci che non ce l’hanno.

A mio parere soffriamo tutti di negazione e rimozione del vuoto interiore. Un po’ meno le cosiddette Anoressiche: loro lo dicono apertamente. In questo caso il vuoto è finalmente palesato, reso visibile, ormai innegabile. Ma a tutti gli altri, a tutti quelli che non conoscono il proprio vuoto interiore, sembra di vedere un alieno. Capisco perfettamente che, nei casi gravi nei quali si rischia il blocco organico (la cosiddetta Cachessia, il punto di denutrizione oltre il quale, organi importanti smettono definitivamente di funzionare, preannunciando di qualche giorno il decesso) sia necessario intervenire anche con quella sorta di lavaggio del cervello che è il ricondizionamento alimentare. Ma in tutti gli altri casi, ritengo che qualsiasi trattamento multidisciplinare, non possa prescindere dal prendere in considerazione che l’anoressica assume sul proprio corpo una sofferenza che altri riescono a contenere, a rimuovere, perfino a negare. L’Anoressia diventa così l’espressione più visibile e urlata della imperiosa necessità per ogni persona di identificare il proprio progetto interiore. Non si tratta affatto di un bisogno astratto ed impalpabile, ma di una urgente necessità per una società come la nostra che ha raggiunto la certezza di alcuni bisogni primari. Avere gli scaffali ricolmi di ogni cibo e morire di fame rimarrà un paradosso incomprensibile fintanto che non saremo in grado di comprendere che la vera fame è quella interiore.

Essere divorati dalla propria stessa fame significa identificarsi totalmente con il proprio vuoto interiore, fino a farlo diventare visibile. Il vuoto dell’anima esce allo scoperto e si impossessa del corpo, lo tortura, lo modifica, lo trasforma. La ragazza che insegue idealmente una bellezza perfetta, si ritrova paradossalmente ad assomigliare ad uno scheletro, alla morte, alla bruttezza ontologica. In una sorta di Legge del Contrappasso, il corpo perde armoniosità per farsi ossuto e spigoloso, si intravede lo scalpo per la caduta dei capelli, la fertilità lascia il posto all’amenorrea, la pelle perde vitalità, colore, per ingrigirsi e corrugarsi. Eppure nessuno sembra ancora comprendere la natura più autentica di questa fame, che si vede nel corpo ma che nasce dalle profondità dello spirito.

Una civiltà che produce cibo oltre ogni suo più remoto bisogno ha in verità un’impellente necessità di comprendere le urgenti spinte del proprio Sé. Comprendere il proprio Sé, decodificarne i messaggi, tentare di realizzare il proprio progetto esistenziale non sono più bisogni superflui e accessori, ma passaggi resi necessari dalla nostra epoca storica.
Nella mente dell’anoressica non esistono altri valori che quelli misurabili, razionali, concreti. Il controllo del proprio corpo e dei suoi bisogni più elementari è vissuto come una vittoria sulla materia, la glorificazione del potere della mente sulla sporcizia del corpo. Come possiamo immaginare di curare queste ragazze se prima non curiamo noi stessi dalla follia che si è impadronita del nostro mondo? Come possiamo immaginare di aiutarle se prima non ci liberiamo delle lenti distorte con cui osserviamo le nostre esistenze? I valori prosaici perseguiti da queste ragazze non se li sono inventati: li abbiamo creati noi. Solo che loro li prendono davvero sul serio, finiscono per crederci veramente. Non dovremmo lamentarci se al mondo esistono ancora persone così sensibili da accettare da farci da segnalatori, da spie di controllo. Queste ragazze hanno una sensibilità enormemente superiore alla media e il loro corpo è il terreno sul quale si gioca la guerra dei valori, il loro corpo è il grido di allarme di un’intera civiltà. Non lasciamole sole.

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scuola counseling

1 COMMENTO

  1. è uno degli articoli più logici e profondi che abbia riscontrato nell’ambito clinico dei disturbi alimentari. Si è colto il nodo centrale che molte teorie stavano ignorando e che affonda le radici nella spiritualità: così come l’uomo non può essere diviso in compartimenti stagni (origine genetica, psicologica, emotiva) in quanto è un tutt’uno e le sue componenti si influenzano, allo stesso modo i suoi frutti necessitano di una visione olistica e quindi anche spirituale. Grazie per aver dato voce alla vera causa che affligge 1/4 della popolazione mondiale. Mi piacerebbe molto poter approfondire il disturbo alimentare secondo l’ottica clinico-spirituale e poter lavorare in sinergia, che dice?

    Lieta di aver letto il suo lavoro

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