Il mènage nel matrimonio borghese

L’Odore del sangue: ovvero il ménage del matrimonio borghese. Il libro ed il film scandagliano il fondo limaccioso del ménage di un matrimonio borghese: “niente esclusive”, la coppia è aperta ma il libertinaggio autorizzato si scontra con le ossessioni di Carlo, un uomo che vede per la prima volta la compagna liberarsi concretamente dai vincoli psicologici che la tenevano legata a sé e che si sente tagliato fuori da una tresca che Silvia vuol condividere con lui fino a un certo punto. Occhi spalancati chiusi sulle dinamiche del sentimento di coppia, rappresenta il conflitto di un uomo con la propria ipocrisia amorosa che prende le vie del confronto con un fantomatico concorrente: lo scontro con il rivale è generazionale (la moglie ne sottolinea il vigore e la forza quasi a voler rimarcare la differenza col maturo consorte), sessuale e politico (se i coniugi costituiscono un esempio fin troppo paradigmatico di raffinata coppia progressista, l’infatuazione della donna ha per oggetto un fascitello violento e prepotente). La genialità della storia (ripresa dal fondo dei due classici cinesi) è di far supporre che la creazione di una storia extraconiugale e di un amante siano solo l’estremo tentativo posto in essere da una moglie innamorata, inesorabilmente messa da parte, per riguadagnare l’attenzione e la considerazione del compagno.

La supposizione può spingersi fino al punto di azzardare che lo stesso Carlo, almeno alla fine, raggiunga questa consapevolezza e che in qualche modo ci giochi (la scena nella camera d’albergo a Venezia, la visibile paranoia della donna) . Chiosando con un passaggio vistosamente simbolico (l’apertura di uno degli scomparti della stanza dell’obitorio che si scoprirà significativamente vuoto); il regista afferma che la scelta di non far vedere il giovane amante ricalca quella del romanzo, in cui il marito (l’io narrante) non lo incontra mai, ma è innegabile che quella del non detto e del non visto sia un’opzione volta scientemente ad ampliare il margine dell’interpretazione. Sicchè ne l’Odore del Sangue, sulle “piste” dei classici cinesi, amore ed eros sono concetti, astrazioni, invenzioni, che dipendono non dai fatti ma dal nostro sentire. Carlo è un uomo nella piena sofferenza di un’età fastidiosa, quando non si è né troppo giovani per poter amare con totale leggerezza una giovane addestratrice di cavalli, vitale, intelligente, ribelle e fanciullesca; né tanto vecchi da voler davvero terminare la propria esistenza sentimentale ed erotica con la donna che si è amata per 20 anni, una donna con la quale si è costruito un sentimento attraverso la coazione a ripetere di tradimenti e presunti ragionamenti su un utopistico amore privo del senso di appartenenza.

Carlo è un uomo stanco, spigoloso, intelligente, curioso, acuto. L’ossessione che nasce in lui da una gelosia mai provata prima verso la moglie, lo destabilizza, lo infiacchisce, lo costringe a seguire la propria donna tra Roma, la Sicilia e Venezia, per capire se stesso e lei. Per capire cosa sia il tradimento, cosa sia la pulsione erotica, cosa sia e chi sia il giovane violento e sadico che ha invaso il corpo e la mente di una donna raffinata, bella, ironica e triste, tremendamente triste e sola, come Silvia. L’eros, naturalmente, è l’elemento portante della vicenda, ma non indagata secondo il classico binomio di Eros e Thanatos. E’ un’interpretazione quanto mai conosciuta, quanto mai manualistica, freudiana nel senso più stretto e più elementare del termine. Ma nel romanzo di Parise (che conosceva l’oriente) e nel film di Martone, il rapporto è risolto in termini altri. L’elemento erotico è scomparso fra Carlo e Silvia, poiché portato a conseguenze prevedibili e prive di sfumature. Carlo e la giovanissima amante giocano, nuotano, si abbracciano; Carlo e Silvia passeggiano ma non si toccano, non giocano, non sanno più essere felici .

Così come l’amore con Lù (la giovane amante) rivela la delicatezza di un amore adolescenziale, l’amore tra i due coniugi è distante, doloroso, piatto, lontano eppure inoppugnabile, esattamente come le rocce siciliane . Ciò che uccide l’amore non è il trascorre del tempo, l’assenza di sorpresa, ma la distanza (o il distanziarsi) dal desiderio di guardare e di ascoltare e di condividere. “L’odore del sangue” è un romanzo non rifinito dal suo autore, composto di getto nel 1979 e riletto senza apportare variazioni pochi mesi prima della morte nel 1986 (Giacomo Magrini dà conto nella nota al testo dei criteri e dei problemi filologici dell’edizione) . Già, probabilmente, in arretrato sul gusto letterario dell’epoca della sua stesura (il ’79 è l’anno di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”), il romanzo lo è ancor più su quello odierno, ma, proprio per questo, si offre al lettore come un campione, perfetto ancorché tardivo, della narrativa del Vecchio Novecento, moraviana o precalviniana che dir si voglia. Le caratteristiche di questa narrativa vi si ritrovano infatti tutte: il centralismo assoluto dell’io, la parallela centralità del sesso, la ritualità della coppia (dove tutto, perfino l’adulterio, è istituzionalizzato).

“L’odore del sangue” ci ricaccia istruttivamente nel profondo Novecento, in una letteratura stretta intorno a un io ipertrofico e claustrofobico e ci fa misurare la distanza ormai enorme che ci separa da essa. Le pagine di questo libro sono il resoconto minuzioso ed ossessivo sulla gelosia, un resoconto scritto con crudele e maniacale abilità desunta (in larga parte) dai due classici cinesi di cui abbiamo dato conto. Secondo La Capria, “L’odore del sangue” è un libro nel quale Parise, sapendo che non l’avrebbe pubblicato, poteva svelare tutto di sé, dove poteva “portare a galla tutte le rimozioni depositate nel fondo del suo animo” . Ciò che accosta L’Odore del Sangue ai temi dei due classici cinesi (e giustifica questa nostra digressione) è quanto mirabilmente sintetizzato da Mario Fortunato : “Non è un’opera incompiuta e lacunosa, essa è utile alla comunità degli studiosi, ma non necessaria ai bisogni del comune lettore di narrativa”.

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