Improvvisare vuol dire creare musica “nuova” , cioè il comporre in maniera istantanea. Per riuscire a farlo, l’improvvisatore deve seguire due grandi direttive: la via musicale e la via estatica. La via musicale è tutto ciò che il musicista ha imparato nel corso della sua formazione: teoria, armonia, la pratica quotidiana con il proprio strumento, tutta la musica scritta e tramandata sugli spartiti ed anche la musica ascoltata sui dischi, dal vivo, ecc.; praticamente tutta la cultura musicale acquisita. La via estatica, invece, è la capacità dell’improvvisatore di andare in “estasi” (ex-stasis = uscire dal corpo inteso come dimensione fisicamente statica), di entrare cioè in quel particolare “stato modificato di coscienza”, attraverso il quale è possibile instaurare uno straordinario contatto con il proprio strumento. L'”Ecto Musica” è il risultato dell’improvvisazione che segue solo la via estatica: il musicista e lo strumento si “fondono”. Questo permette di suonare, in modo diretto e immediato, quello che si percepisce intuitivamente, senza dover attingere alla memoria cosciente: l’improvvisatore stesso diventa spettatore di questo fenomeno e lascia che la musica “accada” spontaneamente, attraverso di lui (Fabio Bottaini).

Fin da quando iniziai a studiare seriamente il pianoforte, nel 1978, mi accorsi che ero molto più attratto dal creare musica piuttosto che eseguire una partitura. Infatti, dopo circa un anno di studi classici, decisi di continuare come autodidatta, dedicando particolare attenzione all’improvvisazione. Da qui al Jazz il passo fu breve, e subito ebbi la netta senzazione di essere approdato a qualcosa che avrebbe giocato un ruolo determinante nella mia esistenza. Stavo iniziando un viaggio che ben presto mi avrebbe portato alla scoperta del fantastico mondo della creatività musicale e che ancor oggi, a distanza di tanti anni, mi coinvolge totalmente. Ma cerchiamo di addentrarci in questo meraviglioso universo che è la creatività, analizzandone uno degli aspetti fondamentali: l’improvvisazione. Nella musica, improvvisare significa inventare qualcosa di nuovo, di originale, quindi “comporre”, ma il tutto deve avvenire sul momento, qui e ora, cioè senza poter tornare indietro a correggere o modificare ciò che si è fatto, altrimenti si perderebbe il contatto con il flusso creativo. Schematizzando, si potrebbe dire improvvisazione = composizione istantanea.

Per poter attuare questo processo, l’improvvisatore deve aver integrato dentro di sé due aspetti essenziali, che definisco la via musicale e la via estatica. La via musicale è tutto ciò che il musicista ha appreso nel corso della sua formazione: teoria, armonia, pratica quotidiana con il proprio strumento, tutta la musica scritta e tramandata sugli spartiti ed anche quella ascoltata sui dischi, dal vivo, ecc; praticamente tutta la cultura musicale acquisita. Ma questo, da solo, non è sufficiente, ed è ben noto ai musicisti che si sono formati nei conservatori, i quali, pur avendo conseguito una notevole preparazione tecnica che permette loro di riprodurre anche i più grandi capolavori, spesso hanno difficoltà a improvvisare. Questa incapacità deriva dal conflitto che inevitabilmente nasce a causa dell’atteggiamento critico che il musicista ha nei confronti di sé stesso: da una parte vorrebbe dare libero sfogo alla propria creatività e magari riesce a suonare qualche nota sullo strumento, ma alla prima “stonatura”, subito avverte un forte impulso che gli impedisce di proseguire. Nel caso di pianisti, per esempio, si vede la mano che si stacca bruscamente dalla tastiera, come se scottasse.

La via estatica, invece, permette al musicista di imparare a “convivere” con il proprio atteggiamento critico, evitando così di farsi coinvolgere dagli “impulsi paralizzanti”: in sostanza, è la capacità dell’improvvisatore di andare in “estasi” (ex-stasis = uscire dal corpo inteso come dimensione fisicamente statica), di entrare cioè in quel particolare “stato modificato di coscienza” attraverso il quale è possibile farsi “rapire” dall’estasi creativa e liberare finalmente la propria energia creativa bloccata. Questo stato di grazia, raggiungibile con diverse tecniche, porta il musicista a uno straordinario contatto con il proprio strumento, una vera e propria fusione che gli permette di suonare in modo diretto e immediato ciò che percepisce intuitivamente, senza dover attingere alla memoria cosciente. In questa magica dimensione, ogni nota, ogni accordo, ogni suono diventa meravigliosamente bello e carico di significato, e lo stimolo a produrre musica cresce sempre più forte, fino a sfociare in veri e propri “raptus creativi”. Nel corso dell’improvvisazione, quindi, il musicista segue queste due grandi direttive, la via musicale e la via estatica, che sono complementari e si integrano in percentuale variabile: si alternano cioè momenti in cui la razionalità è più forte a situazioni dove invece la mente allenta la sua presa ed è allora la pulsione creativa a predominare.

Questo è stato, fin dall’inizio, il mio modo di condurre l’improvvisazione, e per molti anni ho continuato in questa maniera, fino a quando mi resi sempre più conto di uno strano fenomeno: a volte, durante gli studi quotidiani, magari dopo due ore di esercizi estenuanti sul mio strumento, mi assaliva una specie di smania, un desiderio irrefrenabile di improvvisare liberamente, senza alcun punto di riferimento, un vero e proprio “sfogo energetico” dovuto probabilmente alla necessità di scaricare la tensione accumulata durante gli esercizi. Le mani, libere dal vincolo della mente razionale, si muovevano all'”impazzata” sulla tastiera, come dotate di vita propria, ed io osservavo il tutto come uno spettatore sbigottito, lasciando che la musica accadesse spontaneamente, attraverso di me. Allora cominciai a fare degli esperimenti: accendevo il registratore, mi sedevo davanti al pianoforte e cercavo di ricreare quel tipo di situazione sopra descritta, cioè cercavo di liberarmi della via musicale e di innescare la “reazione a catena” che mi avrebbe portato al rapimento creativo della via estatica.

Quando in seguito ascoltavo la registrazione, rimanevo stupefatto: stentavo a credere che fossi stato io a suonare quella musica, non ero mai stato capace di tanto. Questo mi rendeva felice e allo stesso tempo mi spronava nel continuare a indagare in quell’universo misterioso e sconosciuto. Sono passati molti anni dall’inizio di quegli esperimenti e tuttora continuo ad eseguirli. Ho ritenuto opportuno definire questa musica “ecto musica” per l’analogia con ectoplasma: così come nelle sedute medianiche si materializza l’ectoplasma, nel nostro caso si “materializzano” situazioni sonore particolari. Questi “episodi musicali”, tra l’altro, trovano applicazione in ambito psicoterapeutico perché favoriscono negli ascoltatori una maggiore consapevolezza dei propri livelli energetici ed un eventuale sblocco liberatorio.

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