L’importanza del respiro secondo il testo più importante dello Yoga, scritto dal saggio Patanjali, e alla luce dle commento di B.K.S. Iyengar, uno dei più grandi maestri di Yoga viventi.

Patanjali descrive il Pranayama nei sutra 49-53 del secondo Pada. Pranayama è il quarto degli otto petali dello Yoga. Si parla spesso di otto petali e non di otto livelli appunto perché non esiste una consequenzialità tra gli otto aspetti dell’Ashtanga yoga. Questo principio generale trova una deroga, tuttavia, nel rapporto fra asana e pranayama: solo per questi due Patanjali dice chiaramente che Pranayama viene dopo che Asana è stato perfezionato (II, 49).

Il Sadhaka, dunque, non potrà padroneggiare le tecniche del pranayama se prima non avrà preparato bene il corpo. Nell’allegoria dell’albero dello Yoga di Iyengar il pranayama è paragonato alle foglie perché, proprio come fanno le foglie degli alberi, esso dà ossigeno ad ogni singola cellula del nostro corpo. Pranayama non consiste solo in “controllo del respiro”. “Prana” è il respiro vitale che permea la Natura, costituendone l’energia fondamentale. Nell’uomo Prana è connesso con citta, la coscienza: quando il respiro è calmo il prana è calmo e quindi anche citta è calmo. Il prana ha come veicolo non annamaya kosa, il corpo fisico, ma pranamaya kosa, uno strato più sottile dove il prana scorre “irrorando” ogni organo del corpo fisico e prendendo di volta in volta nomi diversi.

Etimologicamente oltre a Prana il termine contiene la parola “ayama”, che significa estensione, creazione, mantenimento, ma anche controllo. Il pranayama, dunque, è il controllo, semmai, di questo prana, di cui il respiro è solo una manifestazione. Il pranayama agisce come ridistribuzione dell’energia attraverso il corpo ed il sistema nervoso dopo che il lavoro delle asana ha permesso all’energia di vincere i blocchi e di circolare liberamente.

Il meccanismo del pranayama viene paragonato da Iyengar nel suo commento agli Yoga Sutra di Patanjali alla produzione dell’energia elettrica nel seguente modo: costruendo un bacino idrico si fa in modo che l’acqua cada nelle turbine che, ruotando ad alta velocità, producono energia. Grazie a dei trasformatori che regolano il voltaggio il potere dell’elettricità prodotta viene aumentata o diminuita. Il prana in questo esempio può essere paragonato all’acqua che cade nelle turbine, la zona toracica al campo magnetico che le circonda. Con il pranayama i fusi muscolari lavorano come le turbine di una centrale elettrica; l’energia viene inviata ad ogni piccola parte dei polmoni per generare maggiore energia. I chakra sono per il nostro corpo quello che i trasformatori sono nella centrale: l’energia generata nel torace viene accresciuta o diminuita dai chakra e distribuita all’intero corpo attraverso i canali del sistema circolatorio e del sistema nervoso.

Il pranayama, dunque, è un modo per fare pieno uso della nostra energia vitale e per accrescerla. Nel sutra II, 50 Patanjali entra più nel dettaglio spiegandoci i tre movimenti del pranayama: inspirazione (puraka), espirazione (rechaka) e sospensione (o ritenzione, kumbhaka). Quest’ultima può essere a polmoni pieni, parliamo allora di antara kumbhaka, o a polmoni vuoti bahya kumbhaka (kumbha vuol dire “brocca” che può essere riempita o svuotata completamente di acqua).

Esiste anche un quarto tipo di movimento che va oltre i precedenti tre e si ha quando il movimento del respiro funziona senza la volontà o la sforzo della persona (II,51). E’ uno stato simile al kevala kumbhaka di cui parlano anche altri testi; è un nirbija pranayama (senza seme) che si contrappone al precedente tipo, sabija pranayama, poiché trascende i movimenti di regolazione del respiro (prana vritti), fondati su espirazione (bahya vritti) inspirazione (antara vritti) e sospensione (stambha vritti).

Nella pratica delle Asana Iyengar consiglia di usare molto l’espirazione, per lo meno finché si è principianti, paragonandola ad una sorta di lassativo per le cellule del corpo che così vedono allontanarsi la tensione. Su un piano filosofico attraverso l’inspirazione l’ “io” viene in contatto con la superficie, toccando la pelle che è il confine estremo di annamaya kosa, mentre con l’espirazione l’esterno (il corpo, per l’appunto, le cellule) si muove verso l’interno. Questo processo di continua evoluzione-involuzione rappresenta anche le due vie diverse per arrivare a Dio: nell’inspirazione (pravritti marga) sperimentiamo la creazione, nell’espirazione (nivritti marga) la rinuncia. Lo yogi deve raggiungere l’equilibrio tra queste due vie.

Anche il kumbhaka ha una dimensione filosofica importante. In esso lo yogi deve raggiungere l’equilibrio tra abhyasa, la pratica, e vairagya, la rinuncia. L’obiettivo della ritenzione è mantenere l’ “io” innalzato, senza farlo sprofondare, allorquando la ritenzione diventa solo un fenomeno prettamente fisico. Sempre riguardo al Pranayama Patanjali ci dice che esso rimuove il velo che ricopre la luce della conoscenza (II, 52) e che attraverso di esso la mente diventa adatta alla concentrazione (dharana; II, 53). Questo avviene perché tramite il pranayama lo yogi riesce ad ottenere immagini mentali precise e non offuscate e la capacità di formare immagini mentali vivide è necessaria per praticare dharana.

La durata della vita degli yogi è determinata dal numero dei respiri: con una respirazione lunga, lenta e profonda il sistema respiratorio si rafforza ed il sistema nervoso si calma. Allo stesso tempo il desiderio si attenua e così la mente si libera e diventa un mezzo adatto alla concentrazione. Essendo il pranayama legato al nostro soffio vitale esso deve essere praticato con molta cautela e sotto la guida di un insegnante esperto.

Fonti:
B.K.S. Iyengar – “Gli antichi insegnamenti dello Yoga” – Edizioni Futura
B.K.S. Iyengar – “L’albero dello Yoga” – Ubaldini Editore
I.K. Taimni – “La scienza dello Yoga” – Ubaldini Editore

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